AZIENDA DI FAMIGLIA E COMUNIONE LEGALE DEI BENI
La comunione legale dei beni è il regime patrimoniale della famiglia previsto dalla legge per le coppie sposate o unite civilmente, salvo una loro espressa scelta a favore della separazione dei beni o di una specifica convenzione matrimoniale; tra l'altro, dal 2016, anche i conviventi possono scegliere di adottare tale regime patrimoniale.
L'azienda cade in comunione legale, cioè diventa a tutti gli effetti al 50% di proprietà di ciascun partner, solo se gestita da entrambi e costituita dopo il matrimonio, l'unione civile o la scelta dei conviventi di adottare la comunione legale dei beni.
Quando, invece, si tratti di un'azienda che era di proprietà di uno solo dei partner già prima dell'unione familiare, poi però gestita da entrambi, la comunione legale dei beni riguarda solo gli utili e gli incrementi dell'azienda.
Cosa significa in concreto? E cosa accade in caso di crisi familiare?
Un caso deciso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione risponde a queste domande per l'ipotesi dell'azienda costituita da entrambi i partner dopo la loro unione ma gestita effettivamente solo da uno di essi.
Nello specifico due coniugi avevano contratto matrimonio nel 1974 e, successivamente, nel 1997 avevano costituito una società - società di cui il marito era amministratore e titolare del 55%; la moglie titolare della restante quota. Nel 2000, in sede di separazione, la moglie chiedeva tra l'altro che venisse accertata la comproprietà al 50% della società, nonché di tutti i beni aziendali, compresi gli utili, gli incrementi, le attrezzature e di qualsiasi altra posta patrimoniale ancora esistente al momento della separazione coniugale. Il marito contestava la tesi della moglie, sostenendo che si trattasse di un'impresa esercitata individualmente e non congiuntamente alla moglie e che - in ogni caso - nel calcolare quanto dovuto alla moglie per lo scioglimento della comunione legale, doveva essere considerata la complessiva esposizione debitoria dell'azienda.
Dopo una battaglia legale durata oltre vent'anni, che riguardava anche altri aspetti patrimoniali molto complessi, sul caso si è pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite nel 2022, stabilendo che, nell'ipotesi di impresa gestita solo da un coniuge, costituita dopo il matrimonio, all’altro coniuge spetti un diritto di credito (cioè non il diritto di proprietà) pari al 50% del valore dell'azienda determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale, al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data. Per semplificare: la Cassazione ha escluso che al momento dello scioglimento della comunione legale (cioè, ad esempio, in caso di separazione o scioglimento dell'unione civile) il 50% dell'impresa costituita dopo l'unione familiare ma gestita solo da un partner divenga anche di proprietà dell'altro, dovendosi riconoscere a quest'ultimo solo un diritto di credito pari alla metà del valore netto dell'impresa.
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