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Può il socio di una società di persone recedere dal contratto sociale? Come, e a quali condizioni?

Di recente si è rivolto al nostro studio il socio di minoranza di una s.n.c. con il desiderio di recedere, se possibile, dalla società. Acquisito lo statuto, è emerso che la durata della società era stata prevista fino al 2040 e che mancava qualsiasi previsione espressa in relazione al diritto di recesso dei soci, fermo il tipico richiamo, per quanto ivi non previsto, alle norme di legge. Il socio ci ha comunicato di voler recedere in quanto, a suo avviso, era venuto meno il rapporto di fiducia con il socio di maggioranza, a suo dire responsabile di una gestione scorretta per la quale egli avrebbe anche patito danni patrimoniali.

La risposta ai quesiti del cliente ha imposto l'esame della disciplina del recesso nelle società di persone.

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Il recesso è l’atto unilaterale recettizio che esprime la volontà del socio di abbandonare la compagine sociale.

Nel contesto delle società di persone tale diritto è esercitabile nelle ipotesi contemplate dall’articolo 2285 c.c. e, in particolare:

  • se la società è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci, ogni socio può recedere liberamente con il solo onere di darne comunicazione agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi (articolo 2285, comma 3, c.c.); la dottrina ritiene che questa disciplina si applichi anche al caso in cui il termine fissato sia così lontano da superare la durata della vita di uno dei soci oppure sia previsto un oggetto sociale il cui raggiungimento richieda un tempo superiore alla vita di uno dei soci;
  • se invece la società è contratta a tempo determinato, il recesso è ammesso per legge solo se sussiste una giusta causa e ha effetto appena pervenuto a conoscenza degli altri soci (articolo 2285, comma 2, c.c.).
     
Il concetto di giusta causa secondo la giurisprudenza

Il concetto di giusta causa è tradizionalmente interpretato dalla giurisprudenza in senso estremamente restrittivo: fin dalla sua prima pronuncia sul tema, la Cassazione ha stabilito che, per evitare di ridurre la giusta causa a inutile pleonasmo, essa va riconosciuta solo nelle ipotesi in cui il comportamento del socio recedente costituisca legittima reazione a un contegno degli altri soci tale da fare venire meno la fiducia in essi riposta, concretizzandosi in una violazione di obblighi contrattuali o di doveri di fedeltà, di lealtà, di diligenza o di correttezza, che infici la natura fiduciaria del rapporto (in tal senso, ex plurimis, Cass., 2212/1957).

Ad esempio, ricorre la giusta causa se: (i) il recesso è conseguenza dell’estromissione del socio dall’amministrazione e dalla gestione della società (Cass., 1602/2000, conforme trib. Verona, 25 gennaio 1994); (ii) se la società non restituisca al socio somme da questi prestate (trib. Milano, 3 marzo 1998); (iii) se l’amministratore violi reiteratamente l’obbligo di rendere conto della gestione sociale e dell’andamento della società (trib. Pavia, 19 aprile 1991).
 

Il concetto di giusta causa secondo la dottrina

A differenza della giurisprudenza, la dottrina accoglie un’accezione ampia ed elastica di giusta causa, identificandola anche in situazioni non necessariamente collegate al comportamento scorretto o inadempiente degli altri soci. In particolare, si è definita la giusta causa come qualsiasi evento oggettivo, ossia estraneo alla volontà del recedente, imprevisto ed imprevedibile, che impedisca al socio di continuare a fare parte della società, purché costituisca un evento sopravvenuto rispetto alla situazione preesistente e soprattutto grave, ossia tale da assumere una portata rilevante nelle dinamiche societarie.

Ad esempio, in dottrina sono state individuate come giuste cause di recesso: (i) il dissidio insanabile tra soci; (ii) la conclusione di contratti rischiosi da parte del socio amministratore; (iii) vicende personali del socio quali una malattia o l’età avanzata.

In definitiva, il socio che abbia avuto un semplice dissidio con gli altri componenti della società oppure che senta l’esigenza di mettersi in proprio non potrà abbandonare la compagine sociale perché tali motivazioni non sono caratterizzate da una gravità tale da integrare il concetto di giusta causa, così come interpretato da dottrina e giurisprudenza.

Proprio al fine di evitare che il socio rimanga sostanzialmente “prigioniero” della società, la legge prevede che il contratto sociale possa indicare ulteriori ipotesi di recesso, che però – vista la natura eccezionale dell’istituto – devono considerarsi tassative e non suscettibili di interpretazione analogica o estensiva. Per questo stesso motivo la dottrina maggioritaria ritiene che non sia ammessa la previsione statutaria che prevede la possibilità di recedere ad nutum, ossia senza fornire alcuna motivazione, anche se l’opinione è discussa.

Il contratto di società può contemplare ipotesi di recesso legate a situazioni particolari: ad esempio, per il caso in cui il bilancio di esercizio si chiuda in passivo, oppure nell’eventualità in cui la modifica del contratto sociale sia consentita a maggioranza – anziché all’unanimità – e il socio sia risultato dissenziente rispetto ad una modifica in particolare.

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Tornando al caso di specie, trattandosi di società a tempo determinato il cui statuto nulla prevede espressamente in punto di recesso, abbiamo informato il cliente che può recedere solo per giusta causa. Acquisiti ulteriori elementi, anche probatori, sulla mala gestio del socio di maggioranza, abbiamo ritenuto che vi fossero le condizioni per esercitare il recesso per giusta causa, atteso che costui aveva effettivamente tenuto condotte di gravità tali, sotto il profilo della correttezza e della buona fede, da giustificare la sfiducia del socio di minoranza e da determinare un dissidio che aveva comportato, di fatto, la paralisi della società.

 

 

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