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I bitcoin sono valute virtuali, o criptovalute: si tratta di una “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita,archiviata e negoziata elettronicamente” (D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 90).

Nella prima sentenza pronunciata da un giudice italiano in materia di criptovalute, il tribunale di Verona aveva definito i bitcoin come uno “strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online” costituito da “una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer to peer”.

Le valute virtuali devono tenersi ben distinte dalla c.d. moneta elettronica (che si concretizza, ad esempio, nella carta di pagamento prepagata): quando si fa uso della moneta elettronica, oltre a colui che effettua il pagamento e al suo beneficiario, è sempre presente anche un terzo soggetto intermediario nella transazione – si pensi alla banca che riceve anticipatamente il credito depositato e che assume il ruolo di garante dell’utente della carta prepagata.

A differenza della moneta elettronica, il trasferimento di bitcoin avviene in maniera diretta tra le parti, senza l’intervento di intermediari.

L’espressione “criptovaluta” con cui si identifica il bitcoin è in realtà fuorviante: infatti, il termine “valuta” si riferisce esclusivamente alla moneta avente corso legale, in quanto tale idonea ad assumere efficacia solutoria di ogni obbligazione pecuniaria: ciò significa che il creditore non può rifiutarla ove offerta per adempiere un debito.

Sicuramente i bitcoin non hanno questa caratteristica: si tratta, come detto, di una moneta “privata” che, svincolata da qualsiasi ente emittente centralizzato o banca centrale, non può assumere un valore solutorio ufficiale.

Chiarita la natura dei bitcoin, occorre ora scoprirne il regime giuridico, pur in assenza di una disciplina positiva.

Il bitcoin, quale diffuso strumento di scambio e di pagamento, è correttamente inquadrato nella categoria delle c.d. monete complementari: è un mezzo di scambio scelto liberamente nell’ambito dell’autonomia privata, il cui impiego trova unico fondamento nel consenso reciproco delle parti.

Ricondurre il bitcoin all’ambito contrattuale permette di estendere ad esso tutta la disciplina privatistica e i suoi strumenti in ipotesi di contenziosi sorti per inadempimento di prestazioni aventi ad oggetto criptovalute.

In particolare, il “prestito” di un bitcoin potrà essere qualificato come mutuo, contratto con il quale una parte consegna all’altra una determinata quantità di cose fungibili (come il bitcoin, per l’appunto) e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità.

Pertanto, al fine di ottenere la restituzione di un bitcoin “prestato” sarà possibile fare ricorso agli strumenti ordinari, tra cui, in primis, il ricorso per ingiunzione.

Dato che il valore del bitcoin oscilla significativamente nel tempo, anche da un giorno all’altro, è possibile che la sua restituzione oltre i termini pattuiti comporti un pregiudizio per il mutuante: ove il valore del bitcoin al giorno della sua effettiva restituzione fosse inferiore rispetto a quello che aveva allo scadere del termine pattuito per adempiere, il creditore avrebbe diritto al risarcimento del danno, anch’esso azionabile nelle forme ordinarie.

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