Di patto di non concorrenza del lavoratore dipendente e del prestatore di lavoro autonomo abbiamo già parlato in molteplici occasioni, soffermandoci sui requisiti imposti dalla legge per la sua validità. In questo contributo ci occupiamo di alcune questioni che ricorrono spesso nella prassi attraverso cinque casi pratici.

CASO 1: Modalità di erogazione del corrispettivo del patto di non concorrenza.

 


Nel contratto di lavoro di Tizio è inserito un patto di non concorrenza della durata di tre anni. Il contratto prevede che il corrispettivo del patto di non concorrenza venga corrisposto direttamente come indennità in busta paga, in “rate” di 200 euro al mese, senza ulteriori specificazioni.

Tale modalità di erogazione del corrispettivo è valida?
 

Come anticipato, la legge prescrive molteplici requisiti che il patto di non concorrenza deve prevedere a pena di nullità, tra cui la previsione di un corrispettivo adeguato rispetto al sacrificio imposto al lavoratore con il patto.

Tuttavia, la legge non specifica con quali modalità il corrispettivo debba essere erogato: è valido il patto di non concorrenza che prevede il pagamento del corrispettivo “rateizzato” in busta paga? Dipende.

Tornando al caso concreto: supponiamo che Tizio cessi il proprio attuale rapporto di lavoro tre mesi dopo l'assunzione. In tal caso, poiché il corrispettivo del patto di non concorrenza gli è stato erogato direttamente in busta paga (“a rate” di 200 euro), Tizio avrà ricevuto a tale titolo solo tre mensilità, pari a 600 euro complessivi. A fronte di tale esiguo corrispettivo, Tizio sarà comunque tenuto a rispettare il vincolo di non concorrenza per i tre anni successivi, con un'evidente sproporzione tra il sacrificio imposto dal patto e quanto percepito per il suddetto sacrificio.

Tale sproporzione rende il patto di non concorrenza di Tizio nullo proprio per le modalità di pattuizione del corrispettivo, che si rivela essere sostanzialmente indeterminato, poiché il suo ammontare non è fisso ma varia in base alla durata del rapporto di lavoro. Tale indeterminatezza non permette al lavoratore di valutare preventivamente la congruità del corrispettivo e quindi comporta l'invalidità del patto e del vincolo ivi previsto.

Di regola la giurisprudenza prevalente ritiene validi i patti di non concorrenza che prevedono un'erogazione del corrispettivo in busta paga purché contemplino il pagamento di un “corrispettivo minimo garantito” adeguato, ossia di un ammontare che spetta al lavoratore in ogni caso, a prescindere dalla durata del rapporto di lavoro.

In alternativa, il corrispettivo del patto di non concorrenza può anche essere erogato in unica soluzione alla cessazione del rapporto di lavoro, sempreché la somma ivi stabilita risulti essere congrua. Parte della dottrina ritiene che, per scongiurare impugnazioni pretestuose del patto da parte del lavoratore, tale soluzione sia più prudente di quella descritta in precedenza (pagamento del corrispettivo del patto in busta paga, “a rate”): infatti, in caso di corrispettivo rateizzato in busta paga, il lavoratore potrebbe contestare che, a ben vedere, le somme imputate a titolo di compenso del patto siano in realtà parte della retribuzione ordinaria e che, di conseguenza, il patto sia “sfornito” del requisito essenziale del corrispettivo.

CASO 2: L'estensione territoriale del patto di non concorrenza.

 


Tizio lavora in un negozio che vende capi di abbigliamento solo a livello locale e sottoscrive un patto di non concorrenza della durata di tre anni (durata del vincolo massima per i lavoratori dipendenti standard – cinque anni solo per i dirigenti) esteso in tutta Italia.

Il patto vincola Tizio nel settore merceologico della vendita e distribuzione di prodotti tessili e affini – ciò significa, ad esempio, che Tizio, una volta cessato il proprio rapporto di lavoro, non potrà andare a lavorare nemmeno per negozi di scarpe o che vendono biancheria per la casa che si trovino su tutto il territorio italiano. Tuttavia Tizio potrebbe lavorare in qualunque altro esercizio commerciale che non venda prodotti del settore tessile e/o affini.

Tale patto è valido?

Per verificare la validità del patto, di regola, i giudici compiono una valutazione in termini di ragionevolezza del vincolo complessivamente risultante dall'architettura del patto stesso. In altri termini: il patto sarà considerato nullo se, per la sua eccessiva estensione, non consente al lavoratore di reinvestire la propria professionalità. Per tale ragione, nel caso di specie, in via prudenziale, potrebbe essere opportuno limitare l'estensione territoriale del patto alla regione in cui opera l'impresa ed eventualmente anche a qualche altra regione limitrofa, considerando che, in ogni caso, la clientela dell'imprenditore è esclusivamente locale e che, quindi, non è necessario prevedere un'estensione del patto sull'intero territorio italiano con il rischio che un giudice lo dichiari nullo poiché eccessivamente restrittivo.

CASO 3: Limitazione territoriale e merceologica del patto di non concorrenza del lavoratore autonomo.

 


Tizio è un lavoratore autonomo con partita IVA e opera come programmatore per la società Alfa. Il suo contratto di collaborazione prevede un patto di non concorrenza delimitato al settore dei servizi IT ma non prevede alcuna limitazione geografica.

Il patto è, dunque, nullo, in quanto esteso a un territorio indeterminato?
 

Sul punto la disciplina normativa è chiara per i lavoratori dipendenti: l'articolo 2125 c.c. prescrive che il vincolo derivante dal patto di non concorrenza deve essere contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo, pena la nullità del patto di non concorrenza. Meno chiara è, invece, la disciplina di cui all'articolo 2596 c.c. per i prestatori di lavoro autonomo. In particolare, la disposizione prevede che il patto “è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività”: la congiunzione avversativa o viene interpretata letteralmente dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, per le quali sono validi i patti di non concorrenza del lavoratore autonomo delimitati solo sotto il profilo del settore merceologico e non anche sotto il profilo dell'estensione geografica.

CASO 4: I codici ATECO quali indici della concorrenzialità tra imprese.

 


Tizio lavora per un'impresa che si occupa di autolavaggio di veicoli e vorrebbe andare a lavorare in una carrozzeria. Di primo acchito le due attività appaiono diverse, quindi Tizio ritiene che la sua nuova prospettiva lavorativa non determini una violazione del patto di non concorrenza, il quale gli prescrive, una volta cessato il rapporto di lavoro e per i tre anni successivi, di astenersi dal fornire il servizio di lavaggio auto o qualsiasi altro servizio affine nell'ambito della regione Lombardia.

Anche i codici ATECO delle due attività sono diversi: l'attività di lavaggio auto è contrassegnata dal codice 45.20.91, l'attività di carrozzeria dal codice 45.20.20.

La differenza di codici ATECO è, di per se stessa, sufficiente ad escludere la concorrenzialità tra le due imprese?
 

Escludere la concorrenzialità tra due imprese – e, di conseguenza, la violazione del patto di non concorrenza – sulla sola base dei codici ATECO è rischioso: tali codici costituiscono un dato meramente indicativo del settore dell'attività prevalente dell'imprenditore.

Due imprese ben possono essere contrassegnate da codici ATECO diversi ma svolgere attività tra loro concorrenziali: ai fini dell'ambito di operatività del patto rileva anche la cosiddetta concorrenzialità potenziale tra imprese, per cui un imprenditore può ritenersi concorrente “potenziale” di un altro anche se non opera attualmente nel medesimo mercato competitivo ma ha tutte le possibilità di farlo in futuro, ampliando la propria attività.

Occorre anche analizzare criticamente il dato fornito dai codici ATECO delle imprese coinvolte: nel nostro esempio, i codici ATECO, pur se diversi, appartengono alla stessa macrocategoria di attività, contrassegnata dal codice 45.2, ossia “Riparazione e manutenzione di autoveicoli” – circostanza che, dunque, potrebbe anche essere interpretata per concludere che le imprese siano effettivamente concorrenti.

CASO 5: Le conseguenze della nullità del patto di non concorrenza.

 


Tizio ha appurato che il proprio patto di non concorrenza è nullo per carenza di uno dei requisiti prescritti dalla legge a pena di nullità – ad esempio, in quanto il patto prevede l'erogazione del corrispettivo in busta paga senza contemplare un corrispettivo minimo garantito. Tizio decide allora di dimettersi dal proprio attuale lavoro e di andare a lavorare per una società concorrente, sebbene in evidente violazione del patto, sul presupposto che esso sia nullo.

Il precedente datore di lavoro fa causa a Tizio per violazione del patto e Tizio ne eccepisce la nullità. Il giudice accerta che il patto è effettivamente nullo per la mancanza di previsione di un corrispettivo minimo garantito.

Ciò significa che Tizio è libero di andare a lavorare per il concorrente del proprio ex datore di lavoro senza alcuna conseguenza?
 

Non proprio: se si invoca la nullità del patto di non concorrenza per carenza dei requisiti essenziali di legge, allora il corrispettivo ricevuto da Tizio in busta paga a titolo di compenso del patto di non concorrenza dovrà essere integralmente restituito all'ex datore di lavoro, circostanza che può rivelarsi piuttosto gravosa se il corrispettivo accumulato negli anni ha raggiunto un ammontare significativo.

Dunque, prima di violare a cuor leggero le disposizioni di un patto di non concorrenza che si ritiene essere nullo, occorre mettere in conto che invocare la nullità del patto può comportare l'obbligo del lavoratore di restituire alla controparte quanto ricevuto nel tempo a titolo di corrispettivo del patto stesso.

Il lavoratore dovrà quindi valutare se sia più conveniente restituire la somma – che, di fatto, rappresenta il prezzo della propria “libertà” professionale – oppure cercare soluzioni alternative che non determinino una potenziale violazione delle prescrizioni del patto.

 

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