Diritto societario: abuso della maggioranza ai danni del socio di minoranza. Tre casi pratici.
Cos’è l’abuso della maggioranza? Quali sono i casi tipici in cui si concretizza? Quali sono gli strumenti di tutela a disposizione del socio di minoranza?
Nell’ambito del diritto societario l’abuso della maggioranza consiste in una lesione dei diritti del socio di minoranza in violazione del canone di correttezza e buona fede, il quale impone il perseguimento dell’interesse comune della società.
L’abuso della maggioranza si concretizza tutte le volte in cui viene realizzata un’attività – tipicamente, una delibera assembleare – che, sebbene formalmente rispettosa della disciplina normativa:
(i) non trova alcuna giustificazione nell’interesse della società poiché il voto della maggioranza è ispirato al conseguimento di un interesse personale dei soci di maggioranza, antitetico rispetto a quello sociale;
(ii) è il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza.
Gli ambiti principali in cui si manifesta il fenomeno dell’abuso della maggioranza sono sostanzialmente tre:
1. le delibere in materia di aumento di capitale;
2. le delibere in materia di distribuzione degli utili;
3. le delibere in materia di compenso degli amministratori.
In questo contributo esemplificheremo ciascuno di questi tre casi al fine di renderli più agevolmente riconoscibili ai soci di minoranza che ritengano di essere stati pregiudicati dallo strapotere della maggioranza societaria e valuteremo quali rimedi possano essere adottati per far fronte ai comportamenti abusivi del socio (o dei soci) che ha (o hanno) il controllo della società.
1. Le delibere in materia di aumento di capitale
In un precedente articolo abbiamo già spiegato che la maggioranza può commettere un abuso ai danni del socio di minoranza attraverso una delibera di aumento del capitale sociale. La legge prevede che la delibera di aumento del capitale debba essere approvata “con il voto favorevole dei soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale” (articoli 2479 bis, comma 3, e 2479, comma 2, numero 4, c.c.): ciò significa che, salvo che lo statuto non preveda una percentuale più elevata, il socio di maggioranza può sostanzialmente deliberare in autonomia – e nonostante il dissenso del socio di minoranza – l’aumento di capitale.
Se il socio di maggioranza che ha deliberato a favore dell’aumento è anche l’unico che può permettersi di sottoscriverlo, la conseguenza è che la partecipazione del socio di minoranza ne risulterà "diluita", ossia ridotta proporzionalmente.
Se l’aumento è stato disposto con il voto favorevole del socio di maggioranza al solo fine di diluire la partecipazione del socio di minoranza "sgradito", fino a rendere il suo peso in società sostanzialmente inesistente o, comunque, al mero scopo di rafforzare ulteriormente la propria posizione di dominanza, allora la delibera è annullabile in quanto emulativa, poiché adottata in violazione del principio di buona fede di cui all’articolo 1375 c.c. Se, invece, la delibera di aumento, pur risultando in concreto lesiva dell’interesse del socio di minoranza, risponde a un interesse della società, allora sarà legittima.
Il socio di minoranza che assume di essere danneggiato dalla delibera di aumento di capitale potrà impugnarla davanti a un giudice invocandone l’annullabilità per abuso della maggioranza ai propri danni; il giudice esaminerà la delibera nel merito (ossia non si limiterà a valutarne la legalità formale) al fine di valutare se concretizzi effettivamente un abuso del socio di maggioranza ai danni del socio di minoranza o se, invece, pur risultando pregiudizievole per il socio di minoranza, debba comunque considerarsi legittima poiché conforme a un interesse sociale.
Dimostrare l’abusività di una delibera di aumento del capitale sociale non è affatto semplice. In primo luogo, perché l’onere della prova dell’abuso della maggioranza grava sul socio di minoranza che impugna la delibera; in secondo luogo, perché la recente giurisprudenza di merito tende a salvare la legittimità delle delibere di aumento a meno che le stesse (i) non trovino proprio alcuna giustificazione nell’interesse della società (ossia non si concretizzino in una deviazione dallo scopo economico-pratico sancito nel contratto di società) oppure (ii) siano addirittura il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza finalizzata a danneggiare i soci di minoranza e rivolta al conseguimento di interessi extrasociali.
Se, invece, l’aumento di capitale è giustificato dalle esigenze finanziarie della società, l’abuso della maggioranza non sussiste – nemmeno a fronte del ridimensionamento della partecipazione del socio di minoranza. Infatti, le esigenze economiche della società prevalgono sempre sugli interessi dei singoli soci.
Ad esempio, in una recente decisione il tribunale di Trento (sentenza del 14 agosto 2020) ha ritenuto che l’aumento fosse giustificato dall’esigenza di ricapitalizzazione della società che aveva subito una perdita consistente, anche se le riserve rimanenti erano ben superiori rispetto all’ammontare della perdita. In particolare, l’interesse sociale perseguito dalla delibera sarebbe stato quello di mantenere inalterato l’indice di patrimonio netto della società (ossia il rapporto fra il totale del patrimonio netto e le passività).
In un’altra recente sentenza del tribunale di Napoli (sentenza del 6 novembre 2019), sebbene la società fosse titolare di strumenti finanziari a reddito fisso per 2.000.000 di euro, il giudice ha ritenuto l’aumento di capitale – sebbene disposto con il dissenso del socio di minoranza – funzionale a un interesse sociale perché, a ben vedere, i titoli erano vincolati a garanzia di un finanziamento concesso alla società da una banca e, quindi, non erano nell’immediata disponibilità della società.
Infine, anche una recente pronuncia del Tribunale di Milano (ordinanza del 7 giugno 2018) ha rigettato la domanda di annullamento della delibera di aumento del capitale per abuso della maggioranza ritenendo che l’aumento anzidetto fosse giustificato da un’esigenza di ricapitalizzazione della società perché la stessa (i) aveva avuto negli ultimi quattro anni un andamento patrimoniale caratterizzato da perdite; (ii) possedeva una rilevante esposizione bancaria.
2. Le delibere in materia di distribuzione degli utili
Sei socio di una grande società, detieni una piccola percentuale del capitale e speri che, prima o poi, tale partecipazione frutti qualcosa. Tuttavia, negli anni, l’assemblea dei soci decide sempre di non distribuire gli utili ai soci, bensì di reinvestirli integralmente nell’attività sociale – decisione in sé legittima, fintantoché non sconfina nell’abuso. Facciamo un esempio per cercare di capire meglio quando, verosimilmente, potrebbe configurarsi l’abuso della maggioranza in un simile contesto.
Tizio e Caio sono soci della stessa società: Tizio, socio di maggioranza e amministratore, detiene l’80% del capitale; Caio detiene il restante 20% del capitale sociale. Al termine dell’esercizio la società realizza 1 milione di euro di utili che, se distribuiti, spetterebbero per l’80% a Tizio e per il restante 20% a Caio. Dato che Tizio è titolare di una partecipazione di maggioranza molto consistente, può assumere la gran parte delle decisioni in autonomia: se Tizio non vuole che Caio percepisca gli utili, è sufficiente che voti in assemblea contro la relativa distribuzione.
Gli utili non distribuiti verranno reinvestiti nella società e Caio non percepirà nulla. Come anticipato, tale decisione – formalmente legittima – di per sé non configura necessariamente un abuso della maggioranza a danno del socio di minoranza: infatti è legittimo che la maggioranza sociale, per perseguire l’interesse del business, deliberi di non distribuire gli utili per trattenerli nella società – ad esempio per realizzare alcuni investimenti, anche cospicui.
Tuttavia, se ricorrono alcuni elementi, ancor più se congiunti, è possibile supporre che la scelta della maggioranza sia motivata da ragioni abusive – ciò accadrebbe, ad esempio, se:
- la società è solida sotto il profilo patrimoniale e, quindi, non necessiterebbe di accantonare tutti gli utili realizzati;
- la mancata distribuzione degli utili non è solo parziale ma totale;
- la mancata distribuzione degli utili si ripete anno dopo anno, ossia non costituisce l’eccezione, bensì la regola.
- non sussistono ragioni concrete idonee a giustificare la mancata e reiterata distribuzione degli utili in favore dei soci.
Se ricorrono una o, ancor meglio, molteplici circostanze fra quelle sopra elencate, è possibile concludere che la decisione di non distribuire gli utili, seppur formalmente ineccepibile, sia illegittima in quanto presa al solo fine di privare il socio di minoranza di ogni remunerazione del proprio investimento effettuato nella società. Poiché lo scopo del contratto di società è quello di svolgere un’attività in comune proprio al fine di dividerne gli utili, se tali utili non vengono mai distribuiti per molteplici esercizi sociali e senza una ragione convincente, si potrebbe sostenere che la delibera che nega la distribuzione degli utili configuri un abuso di potere della maggioranza.
3. Le delibere in materia di compenso degli amministratori.
Una domanda legittima che potrebbe porsi il socio di minoranza che assume di essere vittima dello strapotere della maggioranza è: cosa ci guadagna, in concreto, il socio/amministratore di maggioranza a non distribuire gli utili, reinvestendoli nella società?
Infatti, se l’assemblea delibera di non procedere alla distribuzione degli utili in favore dei soci, anche l’interesse personale a percepire gli utili del socio di maggioranza, quantomeno apparentemente, risulterebbe sacrificato in nome dell’interesse della società.
Ebbene, non è così se, a fronte della decisione di non distribuire gli utili della società, l’assemblea decide di incrementare significativamente i compensi dell’amministratore (che, ricordiamolo, è altresì socio di maggioranza), il quale, pertanto, percepirà in modo alternativo una remunerazione per il proprio investimento effettuato nella società, eludendo la regola (stabilita dalla legge ed eventualmente anche dallo statuto della società) secondo cui la distribuzione degli utili deve avvenire proporzionalmente, in base alla percentuale di capitale detenuta da ciascun socio. In questo modo, infatti, il socio di maggioranza che occupa una posizione apicale nel consiglio di amministrazione riesce a percepire indirettamente quanto ricavato dalla società, senza remunerare il socio di minoranza.
Torniamo al nostro esempio in cui Tizio è socio di maggioranza e amministratore e detiene l’80% del capitale e Caio detiene il restante 20% del capitale sociale. Come detto, al termine dell’esercizio la società realizza 1 milione di euro di utili che, se distribuiti, spetterebbero per l’80% a Tizio e per il restante 20% a Caio. Ribadiamo che Tizio, in quanto titolare di una partecipazione di maggioranza molto consistente, può assumere la gran parte delle decisioni spettanti all’assemblea con il proprio unico voto: tra l’altro, può anche fare in modo che l’assemblea deliberi l’assegnazione del compenso che ritiene congruo per l’attività che svolge come amministratore, in ipotesi, anche 1 milione di euro, erodendo così tutti gli utili realizzati dalla società (non solo la propria quota dell’80% degli stessi!).
Così facendo il socio di maggioranza realizza un abuso a danno del socio di minoranza: l’abuso consiste nell’aver strumentalizzato la delibera – formalmente valida - che assegna il compenso agli amministratori, il cui vero scopo è, a ben vedere, quello di eludere la disciplina in materia di distribuzione degli utili per danneggiare Caio.
Attenzione però: l’abuso non si verifica tutte le volte in cui la maggioranza decide di assegnare dei compensi a un socio/amministratore, ma solo quando tali compensi sono manifestamente sproporzionati rispetto all’attività effettivamente svolta per la carica di amministratore. L’amministratore, infatti, ha diritto di ricevere un compenso adeguato per l’attività svolta; solo quando tale compenso diventa sproporzionato, ciò potrebbe far presagire che sia stato consumato un abuso ai danni del socio di minoranza.